ANGUS WALTERS EXCOGITANS
NIHIL MIHI HUMANI ALIENUM PUTO
Tuesday, November 19, 2013
Lettera Aperta al Maccallini
Commento all'ultimo blog di Maccallini, in forma di lettera aperta:
LETTERA APERTA
Caro Pietro,
Dopo aver seguito puntualmente il tuo tragitto poetico-linguistico, mi permetto di offrirti alcune mie riflessioni, tanto per concludere il ciclo degli scambi epistolari iniziati molti anni fa. Mentre la nostra amicizia continuerà ininterrotta, questo mio intervento sarà l’omega dei miei giudizi offertiti da quando, anni fa, ti consigliai di puntualizzare le tue idee linguistiche in un blog, con la speranza che, con l’intervento di qualche linguista di professione, si potesse continuare la nostra discussione sulla tua impostazione originalissima sull’evoluzione della lingua. Purtroppo, eccezion fatta per qualche raro intervento di anonimi lettori, tra cui io, non è stato possibile dar via a discussioni linguistiche autorevoli. Io sono del parere che le tue notevoli conoscenze etimologiche e glottologiche abbiano intimorito qualche profesionista in materia, e gli scambi epistolari con il Pittau non sono apparsi nel tuo blog, ovviamente perchè, come professionista, egli non poteva schierare le sue conoscenze contro le tue, e rischiare di perdere il duello.
Come sai, io ti ho sempre espresso il mio scetticismo sulla validità delle tue conclusioni, pur ammirandone la genialità. E, come per il Vico, ti ho ripetuto che i professionisti si sarebbero schierati tutti contro la tua teoria. Il fatto stesso che essi non si sono fatti vivi finora può considerarsi una tacita verifica dell’assunto.
L’aspetto più facilmente oppugnabile della tua tearia si rivela nell’arbitrarietà della ricostituzione del significato di un etimo indipendentemente dal suo contesto. In ciò tu ripeti in linguistica quello che Kant fece per la filosofia, separando due elementi di un termine che tradizionalmente si consideravano inseparabili: essenza/esistenza dell’ESSERE per il Kant, e significante/significato del LOGOS nel tuo caso. Il risultato per la filosofia consiste nello sfacimento della discipliana stessa, per cui oggi nelle accademie non si studia più filosofia, bensì la sua storia. Mentre la vera disciplina si è trasmutata in scienza vera e propria, come la fisica atomica. Il nuovo teorema di Heisenberg (“Se un fenomeno non è osservabile, esso non esiste”), come anche la conclusione di Nietzsche, che “Dio non esiste”, sono comprensibili solo per chi conosce la filosofia di Kant. Ma persino Einstein rifiutò queste conclusioni. Ecco perchè vorrei ricondurti alla poesia.
Il tuo amore per l’etimologia, per la parola, con tutte le sue sfumature e possibili significati, si rivela nettamente nella poesia, dove il tuo genio spicca per la ricchezza di sentimenti ispirati dall’uso delicato quanto preciso dei termini, e per la raffinatezza già evidente fin dalla prima gioventù con la bellissima creazione de “Il flauto agreste”:
Disteso su tenera sponda
bacio col flauto antico
lo stupore dell’alba
che schiude appena le labbra sottili e subito
in vaghi trapassi sfuma nell’aria.
....................................................
....................................................
Flauto divino
è d’uopo che tu ricorra
ai tuoi stratagemmi riposti
se vuoi ch’io prenda dai favi
il miele difeso dalle api.
Se le avide labbra mi perfora un aculeo
gusterò l’amaro veleno
mescolato al profumo dei fiori
e all’anima ebbra
apparirà il mistero delle cose...
Una poesia, questa, non inferiore a quella di un Leopardi.
In conclusione, caro amico, vorrei di nuovo esortarti a riprendere il tuo flauto agreste, e
...Sulle ali del fiato
a solcare il ferruginoso occidente
crogiolo inquieto
dove bolle tra bagliori di fuoco
la colata di lava
dei giorni che verranno...
Angus Walters
Thursday, April 11, 2013
DIALOGO CON MACCALLINI (cont.)
ANGUS WALTERS:___________________________
Caro Pietro, ho inserito un breve commento al tuo recente blog. Spero che non ti sia offensivo. Tu già conosci il mio punto di vista su queste cose, quindi non vale la pena dilungarsi troppo. Solo vorrei che altri intervenissero a commentare.
PIETRO MACCALLINI:____________________________
Caro Angelo, il commento l'ho già letto ed ho pensato che non potevo aspettarmi di più di quello che affermi. La mia analisi corrobora l'ipotesi che si tratti di una leggenda, ma sempre ipotesi resta, anche se per me credibile. Chi crede che sia verità però dove si appoggia per corroborarla? Che sia vissuto realmente un saggio chiamato Giona è possibile, ma i presunti fatti che la tradizione ci ammannisce mi sembrano avere i colori del mito.
ANGUS WALTERS:___________________________
Caro Pietro, quasi tutti gli studiosi o esegeti convengono con l'idea che il racconto sia una satira narrativa a scopi istruttivi, non una narrazione storica, per cui bisogna cercare di individuare l'intento dell'autore, il che non è sempre facile. Per esempio: fino a tempo fa non si comprendeva esattamente ciò che Gesù intendesse con la frase "è più facile che un cammelo passi per la cruna dell'ago che un ricco entri nel regno dei cieli". Sembrava che Gesù intendesse che era impossibile che un ricco potesse essere salvato. Ma recentemente con gli scavi archeologici, si è incorsi in un tratto delle mura di cinta di Gerusalemme chiamato appunto "la cruna dell'ago", cosiddetto perchè lì la porta d'entrata era molto stretta. Questa scoperta, naturalmente cambia radicalmente il significato della frase. Il riferimento a Giona da parte di Gesù non ha nulla a che fare con il valore storico dell'evento, ma solo con l'aspetto profeticamente didattico della narrazione: tre giorni nella balena simbolizzano i tre giorni nella tomba di Gesù prima della risurrezione. Detto questo, non mi sembra lecito dedurre che un Giona non sia esistito.
PIETRO:_______________________
Caro Angelo, io ero rimasto al greco kamelos che significa sia 'cammello' che 'fune'. Ma il nome della porta come lo si è appreso: è la zona chiamata così o c'è qualche iscrizione?
Quanto alla realtà storica di Giona io ammetto la possibilità che sia esistito ma ciò di cui narra la Bibbia su di lui ha tutti i crismi di un mito formatosi nel solito modo. Il numero tre mi pare che ricorra anche ad indicare le giornate che ci volevano per attraversare tutta Ninive. Ad ogni modo si troveranno sempre argomenti nell'uno o nell'altro senso.
ANGUS:________________________
Caro Pietro, ecco l'opinione di un Israelita al riguardo:
"Pare che una delle porte di Gerusalemme avesse, oltre ad un ampio passaggio per carovane e bestiame, anche un passaggio delle dimensioni di una comune porta; questo passaggio era usato per l'accesso e l'uscita in città dei pedoni. Tale apertura, forse per la forma, o per le dimensioni, veniva chiamata la Cruna.
Secondo i sostenitori di questo significato, rientrerebbe nella volontà dell'evangelista l'allegoria secondo la quale, così come il cammello, per passare attraverso la porta detta "cruna" deve abbandonare il suo carico e inginocchiarsi, il ricco deve spogliarsi delle sue ricchezze e abbassarsi umilmente per passare.
Alcuni ipotizzano che il termine “cammello” si debba tradurre “fune” o "gomena".
I termini greci corrispondenti a fune (kàmilos) e cammello (kàmelos) sono simili. Tuttavia, nei più antichi manoscritti del Vangelo di Matteo (il Sinaitico, il Vaticano 1209 e l’Alessandrino), in Matteo 19:24 compare la parola greca per “cammello” anziché quella per “fune”.
Vi è anche chi sostiene che il termine genovese "cammalli" che indica i lavoratori portuali, deriverebbe da questo vocabolo "gomena", ma pare piuttosto che sia una parola di origine araba "hammalos".
In realtà la traduzione "cruna dell'ago" mi pare che sia di Girolamo", allo stesso modo di "corna" per quanto riguarda Mosè, come ha già scritto l'ottimo Aialon".
Non credo che abbiano trovato un'iscrizione. Ancora una volta, il significato ed il significante rimangono da accoppiarsi dal lettore intelligente; e spesso ciò è impossibile.
PIETRO:_______________________________
Caro Angelo, in greco kamelos vale 'cammello' e 'fune, gomena'. Nel Nuovo Testamento si ha la forma camilos, ma si tratta di "lezione". Così dicono i miei vocabolari. Il concetto di "cruna" è adattissimo, secondo la mia linguistica, per indicare qualsiasi 'apertura' e quindi anche una 'porta', piccola o grande che sia.
Per quanto riguarda i racconti che ci vengono dal lontano passato, a parte le considerazioni che hai fatto nella precedente mail, bisogna assolutamente credere che essi hanno subito gli incroci che ho messo in evidenza nell'articolo su Giona. Addirittura essi si sono verificati anche per Santa Chiara di cui parlo nell' ultimo articolo che ti ho accennato per la sua importanza. Il caso vuole, infatti, che il Bielli sotto la voce Chiare riporta un detto popolare che suona gné ssanta Chiare che doppe che j'ànne arrubbate à fatte fà lu cancelle de ferre. Secondo me questo è un detto che si trascinava da molti secoli prima del tempo di santa Chiara, coetanea di san Francesco, detto che, una volta scomparsa la divinità Clatra precedente, si è adattato per la nuova santa. Esso si spiega bene, infatti, supponendo dietro Chiare il nome della dea latina Clatra, poco conosciuta, che aveva un tempio insieme con Apollo sul Quirinale. In latino clatra vale 'sbarre, cancello'. Anche l'idea di "rubare" è sata suggerita da una forma greca kleptria 'ladra' di cui si può supporre una forma parlata clet(t)ria similissima a Cletra, variante di Clatra. Non si può spiegare diversamente questo detto.
ANGUS:_________________________________
Caro Pietro, ripeto, la tua analisi sparge molta luce sul testo, ma essa non può essere conclusiva. L'espressione dialettale a cui ti riferisci viene interpretata con una svolta sessuale nei dialetti calabresi. Mia suocera, buonanima, ripeteva spesso alle figlie verginelle di non fare come Santa Chiara, che decise di farsi il cancello di ferro (in riferimento alla cintura di castità) "dopo che l'hanno arrobbata". In questo caso l'espressione sarebbe di origine medioevale. Dato l'aspetto fondamentalmente metaforico della lingua, ogni frase è aperta ad una moltitudine di significati, i quali sboccano tutti nella frase manzoniana "a buon intenditor...lei m'intende!" L'accoppiamento di Chiara con Clatra e' nutrito da un aspetto putativo della tua analisi, direi anche
probabile, ma non accertabile.
Wednesday, March 20, 2013
Commenti al blog di Maccallini su L'infanzia di Gesù
"Caro Pietro, il tuo intervento sull’aspetto semantico dell’aggettivo “nazoreo” nel recente libro di papa Benedetto XVI, L’INFANZIA DI GESÙ, sparge molta luce sull’argomento, e convalida, ancora una volta, la validità del tuo metodo. Il significato profondo del termine, in base alla tua analisi, si amplierebbe ad includere anche l’aggettivo “capelluto” o “capellone”, come si direbbe oggi, applicabile ai “nazirei “ del mondo ebraico, cioė, coloro che si dedicavano a Dio e non si tagliavano i capelli, come certamente era il caso del Battista, di Gesù e dei loro seguaci. Il “nazareo” dell’INRI, poteva indicare non solo il luogo della prima residenza di Gesù, ma anche il significato limitrofo. Data la mancanza di un referente veterotestamentario a Nazaret, la località della prima residenza di Gesù, la tua analisi è portante, e non invalida affatto l’esegesi del papa.
Un altro valido punto del tuo intervento analitico è la presenza del bue e dell’asinello, tradizionalmente presenti nella grotta di Betlemme, ma senza un chiaro indizio profetico veterotestamentario. L’esegesi biblica, fino ai nostri giorni non è concludente su questi punti, e certamente l’autore del libro non obietterebbe alla tua analisi, anzi, ne sarebbe illuminato.
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RISPOSTA DI MACCALLINI:
"Caro Angelo, non ho nulla da eccepire alle tue osservazioni concrete ed esaustive. Faccio notare solo che quando tu dici "la tua analisi è portante" forse avevi in mente l'ingl. bearing che significa anche 'produttivo, fruttifero'.
Che il metodo sia quello giusto mi è stato confermato anche da un sito web in cui ho letto che ebraico naziyr 'nazireo' significa nella Bibbia anche 'vigna non potata' accostandosi così al significato di 'capigliatura, ecc.'. L'autore del sito però non sa dire altro che probabilmente questo significato deriva metaforicamente dal fatto che i nazirei erano capelluti. Grazie di tutto
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ANGUS RISPONDE:
"Leggendo L'infanzia ho capito molto più a fondo il vero significato del termine logos, che san Giovanni evangelista usa in riferimento a Gesù. Come sai, san Giovanni, ai piedi della croce, ebbe l'incarico da Gesù di prendere cura di Maria, Sua madre. Quindi egli è l'unico evangelista contemporaneo di Gesù; e il semplice fatto che i quattro evangelisti narrano più o meno gli stessi fatti sulla vita di Cristo, senza conoscersi l'uno con l'altro, dimostra la loro fedeltà agli eventi della narrazione. Inoltre ho compreso più a fondo cosa volesse intendere san Giovanni con la parola logos in riferimento a Gesù:
Noi che conosciamo Saussure abbiamo un'idea molto più precisa di questo logos, che Saussure chiamava parole, cioè l'unione del segno (signifiant) con l'intento (signifié). Questo è al livello sintagmatico o sincronico. Ma al livello diacronico o paradigmatico, la parole diventa langue.
Come tu ben sai, senza conoscere il paradigma di un verbo, non si riesce a coniugare i vari tempi in latino. Quindi, sincronicamente si può coniugare il presente, o il passato di un verbo, ma per saper coniugare tutti i tempi bisogna conoscere il paradigma. Quindi san Giovanni usa il termine logos anche al livello della langue, in quanto i segni presenti nelle profezie del Vecchio Testamento si sono verificati in Cristo nella narrazione del Nuovo Testamento. Insomma, in Gesù s'incrociano il sincronico con il diacronico, il sintagmatico con il paradigmatico, il temporaneo con l'eterno. Naturalmente, il papa, da buon teologo, non può entrare in questi dettagli della linguistica moderna, perché essa non rappresenta il suo campo di specializzazione.
Un'altra considerazione: mentre nel linguaggio comune i due elementi della parole si separano con il passare del tempo, nel linguaggio biblico i due elementi della langue, al livello paradigmatico, si riuniscono in Cristo, nella coincidenza tra il temporaneo (Vecchio Testamento> Nuovo Testamento) con l'eterno (Gesù=Dio). Noi moderni non sappiamo fino a che punto san Giovanni, o gli antichi Greci conoscessero i meccanismi del linguaggio. Tutta la scienza o filosofia, a quel tempo, includeva il trivium (grammatica, retorica e logica) e il quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Ma non è detto che il sapere umano si limitava a queste materie: Aristotele fu scelto come consigliere da Alessandro; e quindi è legittimo desumere che egli conoscesse anche gli elementi della strategia militare, che non faceva parte del trivium o del quadrivium. Idem per la conoscenza dei meccanismi linguistici. San Giovanni era l'unico discepolo "istruito", e per studiare bene il Vangelo basta leggere la sua narrazione degli eventi della vita di Gesù, e seguire attentamente i riferimenti al Vecchio Testamento, magari usando una guida, come il Commentario biblico di san Girolamo.
Purtroppo, noi spesso sottovalutiamo gli Antichi, e crediamo di essere più esperti di loro. Intanto, ancora non sappiamo per certezza come fossero state costruite le piramidi; o come gli antichi Greci abbiano potuto calcolare la distanza tra la Terra e la Luna, che ora ci risulta esatta; o come Giulio Cesare (o i suoi periti per lui) abbia potuto darci una precisa descrizione (triangolare) dell'Inghilterra subito dopo l'invasione romana dell'isola.
Per concludere, vorrei desumere un'altra considerazione dalla lettura dei libri del papa: nell'interno del Nuovo Testamento si rivelano spesso nuovi riscontri dei due elementi signifiant-signifié, che rimangono nascosti fino a quando non lo richieda la necessità dei tempi, come nel caso dei dogmi e i sacramenti, che trovano la loro giustificazione proprio nel Vangelo.
Ora credo di averti annoiato abbastanza!
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RISPOSTA DI MACCALLINI:
"Per quanto riguarda i vangeli e la Bibbia in genere mi sono fatto un'idea alquanto diversa dalla tua, idea che traspare poco dai miei articoli ultimi che hai letto e che, invece, risulta chiara da quest'ultimo che ti invio in allegato.
Il tuo discorso sul logos lo trovo abbastanza originale, anche se io non amo molto le teorizzazioni.
Per quanto riguarda l'ebraico ho appreso, tramite internet, che esso è una lingua con poche parole (mi pare 5 o 6 mila) e che perciò ogni vocabolo può avere significati diversi. Infatti ho scoperto che il solito naziyr 'nazireo' si trova col significato di 'giovane' e addirittura con quello di 'chioma, capelli' (Geremia 7,29) oltre a quello di 'vigna non potata'. Direi che il mio metodo è confermato alla grande. Ti saluto"
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Angus risponde:
"Carissimo Pietro, non vorrei soffermarmi troppo a lungo sulla questione del participio aggettivale portante, ma è appunto la tua analisi che è portante in questo caso, non "un elemento" qualsiasi. Certo è che non hai bisogno di lezioni d'italiano da me. Volevo solo (:- scherzare.
Per quanto riguarda il resto, Io so che tu, da buon deista, interpreti il Vangelo diversamente dall'esegesi che ne fa il papa, e non è il caso d'ingolfarci in una discussione di carattere religioso, ma devi tener presente che la glottologia e la semantica (il tuo forte) hanno a che fare con la parole, non con la langue dove ciascuna delle parole in successione acquista significati che vengono determinati dal contesto. Insomma, la tua analisi, geniale che sia, rimane al livello sincronico, per cui, senza un contesto, non può pervenire ad una esegesi vera e propria; questo è compito del teologo. Non ho ancora letto il tuo allegato, che mi è difficile decifrare perchè appare in caratteri troppo minuti. Attenderò che appaia nel tuo blog, e poi ti offrirò il mio giudizio.
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Maccallini rispnde:
Caro Angelo, senza voler per nulla polemizzare, forse avrei dovuto dire "è una struttura portante". Il participio "portante" , se usato da solo e senza alcun richiamo al linguaggio tecnico, è troppo legato al significato generico di 'recare' per cui si hanno espressioni come: ho visto passare una donna portante in capo una conca. A mio avviso lo dimostra anche il fatto che lì per lì non ho capito bene quello che volevi dire con quella espressione. Anche se con l'età il cervello comincia ad appannarmisi.
Il teologo, però, non conoscendo il meccanismo diabolico del linguaggio, spesso va fuori strada o non trova una soluzione.
Quando riceverò il libro te lo farò sapere. Ciao
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Angus:
Caro Pietro, la tua insistenza sull'uso corretto dell'aggettivo portante è provvidenziale, perchè mi offre l'opportunità di chiarirti il mio pensiero sulla tua linguistica. Le parole, di per sè, non sono affatto diaboliche. Esse non sono altro che un'arma, che può essere usata per il bene o per il male, secondo le norme morali vigenti. Come la parola, il coltello si usa per uccidere il maiale come per commettere un omicidio. Non è il coltello che incide sul valore dell'atto, ma l'utente. Parallelamente, diabolico può essere il parlante che usa il cosiddetto" meccanismo" per far del male. Quando le parole si leggono, il diabolico si applica solo all'autore (omia munda mundis). Il dizionario non è un luogo infernale dove si nascondono tutti i demoni del mondo, ma un cimitero, dove un Maccallini "desume" un possibile intento (significato) di uno scrittore. I migliori dizionari latini sono quelli che indicano l'uso di una parola dei vari autori di riguardo. Se dico "questa donna è portante, l'ascoltatore o il lettore potrebbe intendere che è una "pregnante", come direbbe Manzoni, lo scrittore poeta. Per intendere altro, bisogna specificare "portante in capo una conca". Ma--qui sta il punto--"portante" acquista un significato solo in contesto. Il dizionario può aiutare a desumerne uno, ma è l'autore (Gualtieri, in questo caso) che lo precisa definitivamente. La semantica esamina la parola e la esplora al livello sintagmatico, ma per accertarne il significato, l'intento dell'autore, bisogna varcare i limiti del sintagmatico/sincronico e accedere al campo paradigmatico/diacronico; e questo si fa esplorando il contesto. Quindi la semantica/glottologia di per sè è un apparecchio che non vola.
Questo è sempre stato il mio sincero giudizio della tua linguistica, benchè espresso in altri termini alcuni anni fa. Ciò non toglie nulla alla tua originalità, e direi anche alla genialità delle tue indagini quando il significato di una parola non è facilmente accertabile. Ne riparleremo dopo che avrò letto il tuo ultimo blog.
Stammi bene.
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MACCALLINI:
"Caro Angelo, effettivamente è proprio vero che capirsi è difficilissimo, se non addirittura impossibile: il linguaggio, in questo senso, è davvero uno strumento diabolico, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno tutto l'interminabile lavoro dei critici intorno ad un autore, ad un poeta, ad una espressione. L'aggettivo "diabolico" da me spesso unito al termine "meccanismo" è usato per significare che si tratta di un meccanismo eccezionale, quasi al dilà delle possibilità dell'uomo, e quindi all'altezza di una mente sopraffina come quella del diavolo (non era stato egli, secondo la mitologia cristiana, il principe degli angeli?); tanto è vero che nessuno finora vi ha dato il rilievo che merita, se non forse vagamente in linea teorica. Con altrettanta efficacia avrei potuto usare al suo posto l'aggettivo "divino".
Questo è il motivo per cui solitamente mi tengo lontano dalle teorizzazioni. Comunque il tuo pezzo eccelle per chiarezza e semplicità. Ma pone anch'esso dei problemi: l'uso del termine semantica confinata nel "sincronico" mi pare piuttosto particolare. Anche qui però è vero che il linguaggio usato dai linguisti moderni è un ginepraio da cui non si esce vivi. Ciao
____________________________________________________
ANGUS:
"Esatto. Idem per l'aggettivo "divino". Il dizionario è pieno di segni, sintagmi, parole, non di angeli o demoni. È il lettore che ne desume i significati. La mia critica non è solo per la tua linguistica, ma anche per quella dei linguisti e accademici di oggi, che vorrebbero ridurla ad una materia scientifica, come la matematica e la fisica. Ma per essere una materia scientifica la linguistica dovrebbe comporsi di elementi "discreti", e ad esperimenti "iterabili", come in fisica. Ciò è impossibile fare per la lingua, per cui Chomsky, uno dei più quotati linguisti moderni, abbandonò molti anni fa il campo, dandosi all'analisi politica. Io credo che questo abbia voluto intendere Anonimo, commentando il tuo blog con la frase "temo che la sua visione non oltrepassi i limiti cronologici dell'inimitabile autore". Cioè, le delucidazioni del Maccallini sono uniche, e non facilmente imitabili. Se erro, Anonimo potrà correggermi.
Stammi bene.
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Maccallini:
'Caro Angelo, effettivamente è proprio vero che capirsi è difficilissimo, se non addirittura impossibile: il linguaggio, in questo senso, è davvero uno strumento diabolico, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno tutto l'interminabile lavoro dei critici intorno ad un autore, ad un poeta, ad una espressione. L'aggettivo "diabolico" da me spesso unito al termine "meccanismo" è usato per significare che si tratta di un meccanismo eccezionale, quasi al dilà delle possibilità dell'uomo, e quindi all'altezza di una mente sopraffina come quella del diavolo (non era stato egli, secondo la mitologia cristiana, il principe degli angeli?); tanto è vero che nessuno finora vi ha dato il rilievo che merita, se non forse vagamente in linea teorica. Con altrettanta efficacia avrei potuto usare al suo posto l'aggettivo "divino".
Questo è il motivo per cui solitamente mi tengo lontano dalle teorizzazioni. Comunque il tuo pezzo eccelle per chiarezza e semplicità. Ma pone anch'esso dei problemi: l'uso del termine semantica confinata nel "sincronico" mi pare piuttosto particolare. Anche qui però è vero che il linguaggio usato dai linguisti moderni è un ginepraio da cui non si esce vivi. Ciao
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Angus:
"Esatto. Idem per l'aggettivo "divino". Il dizionario è pieno di segni, sintagmi, parole, non di angeli o demoni. È il lettore che ne desume i significati. La mia critica non è solo per la tua linguistica, ma anche per quella dei linguisti e accademici di oggi, che vorrebbero ridurla ad una materia scientifica, come la matematica e la fisica. Ma per essere una materia scientifica la linguista dovrebbe comporsi di elementi "discreti", e ad esperimenti "iterabili", come in fisica. Ciò è impossibile fare per la lingua, per cui Chomsky, uno dei più quotati linguisti moderni, abbandonò molti anni fa il campo, dandosi all'analisi politica. Io credo che questo abbia voluto intendere Anonimo,commentando il tuo blog con la frase "temo che la sua visione non oltrepassi i limiti cronologici dell'inimitabile autore". Cioè, le delucidazioni del Maccallini sono uniche, e non facilmente imitabili. Se erro, Anonimo potrà correggermi.
Stammi bene.
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Maccallini:
"Caro Angelo, ora che ci sto riflettendo io posso sottoscrivere in pieno quello che dici sulla, diciamo così, incoercibilità del segno linguistico refrattario ad ogni ingabbiamento. Ma questo è un suo vizio d'origine, essendo esso partito con l'indicare l'idea genericissima di 'essere, esistenza, vita'. E' una pia illusione credere che la parola cavallo, ad esempio, sia stata creata per indicare quell'animale! Gli animali li poteva indicare tutti come la cavalletta (da non intendere come metafora di cavallo), compresi quelli che ora consideriamo inanimati, cioè le piante e persino le pietre! Non si spiegano altrimenti i molti monti Cavallo in Italia! I cavalloni del mare, più che metafore di cavallo, indicavano i rigonfiamenti delle onde. Il cavallo dei pantaloni indicano cavità,che è l'inverso del monte o rigonfiamento. Questi significati, insieme a probabili altri perduti nell'oscurità del tempo trascorso, rivelano la molta strada che quel termine originario percorre approdando a significati molto diversi tra loro, anche se un filo conduttore può essere individuato. La lingua è un gran ginepraio perchè su questo vizio d'origine s'innestano poi le varie figure retoriche a complicare ulteriormente le cose. Nonostante tutto e l'immense difficoltà di chiarificazione del segno, a me pare che la lingua sia comunque un prodotto razionale della mente dell'uomo.
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Angus:
Caro Pietro, è vero, come tu dici, che "il segno linguistico è refrattario ad ogni ingabbiamento". Ma il suo vizio d'origine, se vizio c'è, esso risiede negli umani, non nei segni, parole, metafore che noi usiamo per comunicare. Anche gli animali hanno una loro lingua, ma il loro mezzo di comunicazione non varia attraverso i secoli. I cani abbaieranno sempre nella stessa maniera; la modulazione del canto degli uccelli è sufficiente per comunicare alla loro specie tutto il necessario per la sopravvivenza. È altrettanto vero che negli umani, gli elementi signifiant/signifiè, non essendo stabili, per motivi che tu conosci, causano una continua metamorfosi dei segni/metafore. Ed è appunto in questo campo, nella semantica, che eccelle il tuo metodo e il tuo genio.
La tua esplorazione delle varie trasformazioni del segno linguistico illumina tutta la semantica. Ma non si tratta qui di un "vizio d'origine" bensì della capacità umana di esprimere i sentimenti più raffinati tramite segni e metafore che scaturiscono dalla mente creatrice dell'uomo. Se non fosse così non avremmo avuto uno Shakespeare o un Dante Alighieri, autori inimitabili, di cui alcuni segni non sono ancora comprensibili. La grandezza delle tue escogitazioni linguistiche è dovuta non al tuo metodo, ma alla tua erudizione ed alla tua raffinata percezione, doni insiti nella tua natura, e non facilmente imitabili.
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Maccallini:
Caro Angelo, ancora una volta ci ritroviamo ad affannarci con le parole. E' vero infatti che se si assume la chiarezza come caratteristica pregiata della comunicazione, il fatto che i significati originari (e non solo) delle radici fossero così indefiniti e in fondo indefinibili come è la nozione di "essere", cui essi a mio avviso fanno capo, dovrebbe essere considerato come un vizio. Ma se si tiene conto di tutto quello che tu dici, il vizio si trasforma in virtù. E' altrettanto chiaro, come tu asserisci, che il significato non è un valore indipendente dalla mente che parla o pensa o scrive ma è tutto in essa.
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Angus:
Caro Pietro, a questo punto ho perduto le tue tracce, e non riesco a seguirti: vizio, virtu’, essere...; non comprendo casa tu voglia intendere con questi termini. Per riprendere il filo, ritengo opportuno tornare alla tua definizione o concetto della razionalita’ della lingua. Si’, la lingua e’ razionale nel senso che essa e’ analizzabile e scomponibile, cose che hanno gia’ fatto gli Antichi Greci con la loro (e la nostra) grammatica e retorica. Ma la razionalita” della lingua e’ sui generis, come e’ sui generis la logica, la metafisica o qualsiasi altra disciplina umana, nel senso che ognuna di esse richiede strumenti analitici diversi. Come tu ammetti, la lingua e’ un mezzo di comunicazione. Ogni nome, come segno puramente arbitrario, e’ metafora in relazione a un ente o oggetto esistente. Quindi ogni parola e’ una similitudine implicita, Ma vi sono altri metodi non verbali di comunicazione. Segni diacritici, come un punto esclamativo, o un calcio al sedere sono metodi diversi di comunicare un’idea o un sentimento. Se la lingua fosse sempre “razionale’, come si definirebbe il concetto dell’irrazionalita’? Che cosa significa la frase dantesca pepe’ satan pepe’ satan aleppe pronunciata da uno dei demoni dell’Inferno? La razionalita’ o meno della lingua e’ determinata dall’utente, non dalle parole stesse. Se tutto il concetto di lingua si restringesse al singolo segno, sarebbe impossibile comunicare. Tempo fa ti portai il paragone del signifiaco di “gamba” nei contesti “la mia gamba” e “una persona in gamba”, il primo analitico, l’altro sintetico, con significati ben diversi della parola “gamba”. Poi tu specifichi che a te non piacciono le teorizzazioni; ma cosa sono le tue Meditazioni linguistiche se non teorizzazioni?
Thursday, December 13, 2012
Commento al post di Pietro Maccallini di Novembre 2012 nel blog omonimo
Post di Maccallini, Nov. 2012
Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
Le Fate del precedente post, con il delicato riflesso dei loro fili argentei, mi hanno fascinosamente incantato ed attratto nel mondo mitico e primordiale dell’agricoltura abitato da tante altre splendide figure, protagoniste di vicende belle e tristi nello stesso tempo, come bella e triste è spesso la vita.
Credo che tutti conoscano il mito di Proserpina (anche se, in tempi di economicismo dilagante e di conseguente arretramento della cultura classica la quale certo non sembra possa mai arrivare ad influenzare le Borse, questo può essere solo un pio desiderio), la giovane chiamata anche Libera e grecamente Kore, la bella figlia di Cerere, la dea della natura e in particolare delle messi, prima verdeggianti e poi bionde, le quali, si sa, hanno tratto da essa il nome di cereali, vivo e vegeto ancora ai nostri tempi.
Proserpina un giorno coglieva lieta fiori variopinti nell’amena terra di Enna in Sicilia, presso il lago di Pergo, quando improvvisamente dal suolo emerse Plutone, dio dell’Ade, che rapì, tra le grida, la fanciulla caricandola sul suo carro splendente e portandola con sé per farne la regina dell’Averno. Grande fu lo strazio della madre Cerere che ebbe pace solo quando ottenne da Giove che la figlia permanesse un terzo dell’anno negli Inferi e gli altri due terzi li passasse sulla terra.
Linguisticamente l’appellativo di Libera è certamente problematico, a tal punto che né gli antichi né i moderni credo ne abbiano dato una interpretazione perlomeno sostenibile, a meno che non lo si intenda come legato al presunto etimo del nome del suo compagno Libero, antico dio italico dell’agricoltura, figlio di Cerere anch’esso, identificato poi con Bacco, il Dioniso dei Greci. In questo caso l’epiteto di Libero potrebbe essere giustificato dal fatto che il vino, sua invenzione, dona all’uomo ebbrezza e libertà di comportamento, ma questa spiegazione lascia sempre un certo retrogusto di insoddisfazione, data la sua banalità. Le tre divinità della fertilità, che in qualche modo si contrapponevano alla triade capitolina, ebbero fin dagli inizi una connotazione campagnola e plebea, e un grande tempio sull’Aventino (496 a.C.) su prescrizione dei Libri Sibillini.
I Liberalia nell’antica Roma erano una festività che si teneva il 17 marzo in onore di Libero e Libera, in cui la cerimonia più importante era quella che segnava il passaggio, da parte dei ragazzi, dall’età della fanciullezza a quella della pubertà e della maturità, quando essi indossavano la toga virile simbolo dell’avvenuto ingresso nella società civile dei grandi. Il fatto di essere pubere o impubere era talmente importante per l’adolescente che il pater familias, almeno nei tempi più antichi, procedeva ad una diretta inspectio corporis ‘esame fisico’ per accertarsi della presenza nel suo corpo dei segni esteriori della maturità. Ora, a me pare di scorgere un sottile ma tenace filo di collegamento tra il nome di Libero e quello latino di libero(s) ‘figli’, in quanto questa divinità era protettrice non solo dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento (frutti e animali) ma anche di quelli umani, come i figli appunto. Pertanto sono incline a cercare per il lat. libero(s) un etimo senz’altro diverso da quello solito, dato per scontato sia dagli antichi che dai moderni: i libero(s) ‘figli’ costituirebbero, a detta degli studiosi, la parte “libera” della famiglia che si contrapponeva ai servi ‘schiavi’. A voler essere pignoli, però, anche i genitori dei figli “liberi” erano parte libera della famiglia ma senza avere quella denominazione. A nessuno è venuto mai in mente, poi, la considerazione (visto che le parole raramente nascono per indicare i concetti di cui si caricano solo nella loro lunga storia, come ho ribadito più e più volte) che probabilmente i figli degli schiavi non poterono continuare a fregiarsi (da quando?) dello stesso nome di libero(s), che precedentemente forse avevano anche loro, solo a partire da una certa data in poi (da quando?) nella lunga storia di un popolo e della sua lingua: se fosse rimasto infatti quel nome anche per loro, si sarebbe verificata una brutale contraddizione in termini, data l’esistenza in latino (da quando?) dell’aggettivo parallelo libero(s) ‘liberi’ a cui inevitabilmente sarebbe stata connessa la parola: ma essi erano di fatto schiavi perché figli di schiavi!
Ora, se gli antichi non avevano gli strumenti per sventare le insidie e le trappole messe in opera, per così dire, dalla Lingua stessa, per i moderni non è bello schermirsi dietro la medesima attenuante. In effetti in questo caso la parola dovette subire il solito processo di specializzazione che restringeva il suo significato, precedentemente più ampio, ai soli figli degli uomini liberi. La parola poteva, infatti, anche provenire da epoche primitive in cui non esisteva ancora l’istituto della schiavitù, o poteva essere un prestito antico da una comunità limitrofa a quella latina in cui non esisteva, magari, l’aggettivo latino liberu(m) ’libero’ con cui essa fu costretta a fare i conti solo dopo l’ingresso nella nuova comunità di parlanti, per continuare a vivere senza creare contraddizioni. Il suo uso storicamente attestato, infatti, che includeva anche i ‘piccoli degli animali’, è già un forte indizio in tal senso. E dobbiamo sempre ricordarci che ogni lingua non è mai il risultato di un’operazione svoltasi in uno stesso luogo e in uno stesso torno di tempo: anzi, usando un’espressione non tecnica ma che rende bene l’idea, si può senz’altro asserire che non c’è istituzione umana più bastarda di quella rappresentata dalla Lingua che, fin dalle origini, fu il punto d’incontro di rivoli innumerevoli provenienti da ogni direzione, checchè ci possa suggerire il cieco orgoglio umano che tende sempre a innalzare muri divisori tra gruppo e gruppo, popolo e popolo, razza e razza. Ma vogliamo renderci conto una volta per tutte che persino con gli scimpanzè condividiamo il 99% del patrimonio genetico[1], e che è finito il tempo in cui i preti di campagna, e non solo, allibivano inorriditi alla sola idea della possibilità della derivazione dell’uomo da un antenato comune con le scimmie?
Ora, quello che secondo me dà il colpo di grazia alla vecchia etimologia di libero(s) sono alcune voci dei dialetti abruzzesi come il cerchiese lìvërë dë tumènda , con la variante làvërë, [2]‘batuffolo di stoppa (tumènda)’, trasaccano jìvië [3] ‘stoppa filata e raffinata, pronta per la tessitura’, da *livëlë con palatalizzazione della laterale –l-, come attestano i vari abr. lìvele, lévule, lèvïe [4], varianti della forma cerchiese per alternanza r/l, dai significati uguali o simili ai precedenti. A questi va aggiunto, secondo me, il sardo logud. lèppere che significa ‘lepre’ ma anche ‘pube’ ( lat. pubem ‘peli’) la cui radice rispunta, a mio avviso, nel campidanese lepp-erangiòlu ’ragnatela’[5]. Quello che a me sembra una naturale ma linguisticamente importante, oltre che stupenda, conseguenza è presto detta. Il dio italico Liber ’Libero’, infatti, non può che essere l’ipostatizzazione del concetto di “filo, stelo, erba, grano, crescita, ecc.” espresso da questa radice, e di quant’altro possa rientrare in esso, compresi i cuccioli degli animali e degli uomini (liberos): in altri post ho puntato l’attenzione proprio sul ricorrente rapporto, nelle lingue, tra il concetto di ‘pollone, piantina’ e quello di ‘cucciolo, figlio’. Lo stesso fatto che Libero e Libera erano considerati figli di Cerere sta ad indicare, a mio avviso, che questi nomi avevano tra i significati originari anche quelli di ‘figlio’ e ‘figlia’. Un’altra bellissima conseguenza scaturisce dalle considerazioni precedenti: i termini dialettali laòre, laùre, lavùre, labòre, liòri ecc. ‘cereali, grano, frumento, ecc.’, diffusi soprattutto in Sardegna ma anche in alcune zone del Meridione d’Italia, sono la fotocopia dei cerchiesi làvërë e livërë ‘batuffolo (di stoppa)’ in quanto ‘insieme di fili’. Tutti i linguisti, compreso il grande G. Rohlfs, non hanno potuto fare altro che rimandare, per queste voci, al lat. labore(m) ‘lavoro’, termine con cui certamente è avvenuto l’incrocio, che ha causato lo spostamento in avanti del loro accento tonico ed aggiunto all’antico e prioritario significato di ‘stelo, peluria (del grano appena spuntato), filo, erba, cereali, messi’ quelli di ‘aratura, seminagione, ecc.’ attualmente compresenti in genere con l’altro[6]. La forma originaria della voce laòre non doveva essere diversa da quella del lat. lauru(m) ‘alloro’ che è pur sempre una “pianta”, concetto in cui rientra quello di “escrescenza, vegetazione, erba”. L’espressione latina vite(m) labr-usca(m), lambr-usca(m) ‘lambrusca’ (rum. leur-usca) o simili (non possiamo credere che ci sia arrivato tutto il patrimonio lessicale del passato!) può spiegare il passaggio del dio Libero, da protettore generico di ogni forma di vegetazione e di vita, a dio specifico della vite e del vino. Anche per il toponimo storico-geografico di Terra di Lavoro, una parte della Campania felix, così chiamata per l’abbondanza dei prodotti agricoli, bisogna pensare ad un’etimologia consona al suo simbolo costituito da cornucopie stracolme di frutti dei campi. In antico era nota come Leboriae[7], parola molto vicina a quella di Libero, dio della fecondità. Ma non bisogna scartare nemmeno l’ipotesi che all’origine il nome si riferisse alla caratteristica geomorfica del terreno pianeggiante e che pertanto esso potesse richiamare il gr. leur-ós ‘ampio, disteso, libero’. Aggiungerei a queste parole il siciliano laur-india ‘granturco’[8] e il sardo gallurese lara di ragnu ‘ragnatela’ il cui primo termine lara significa, sempre in gallurese, ‘velo trasparente’ e deve provenire da una forma *laura o *labra strettamente legata alle forme citate laòre, laùre, ecc. per ‘cereali’, al cerchiese lavërë ‘batuffolo di stoppa’ e quindi ai significati di ‘steli, fili, insieme di fili, tessuto’. In effetti anche gallurese laru vale ‘lauro, alloro’.
La lingua sarda non è in fondo così lontana dai nostri dialetti come l’apparenza indurrebbe a credere. Ricordo che quando sentivo i Sardi parlare nel loro idioma del Sarrabus, a Villaputzu-Ca dove molto tempo fa ho insegnato per un paio d’anni, oltre a restarne affascinato, data la mia naturale attrazione per ogni loquela, mi sembrava nel contempo di essere caduto nel bel mezzo di un popolo barbaro, dagli accenti molto lontani dai miei. Poi, pian piano mi resi conto che in effetti molte loro parole non mi erano così estranee perché di ascendenza latina o greca. Il sardo logud. e nuor. livrìa ‘ragazzaglia, bambinaglia’ conferma il significato di ‘bambino, ragazzo, rampollo’ della radice.
E’ quasi incredibile ma, a mio parere, i fatti stanno lì a dimostrare che i termini con cui veniva indicata la toga virile stessa alludono tutti al concetto di ‘peluria’ (quella del pube e della prima barba) al di là dei significati di superficie. La toga libera, infatti, che inviterebbe a trovare un etimo ruotante intorno al concetto di “libertà” [9], non può invece che riferirsi, per quello che abbiamo detto più sopra sul dio Libero, all’età della pubescenza, cioè dell’apparizione dei primi peli nel ragazzo. La toga pura non è la toga priva degli ornamenti della pretesta (la toga che portavano i fanciulli ornata da un bordo rosso) ma di nuovo una toga alludente alla pubescenza se si tiene presente l’ingl. fur ‘peluria, pelliccia’ e l’aiellese, cerchiese pirë ‘pelo’ che, è vero, potrebbe rientrare nel gioco dell’alternanza r/l, alternanza che però va spessissimo risolta, a mio avviso, nel senso di una diversità originaria delle due forme[10]. Ancora più incredibile, ma per me veritiera (dati questi precedenti), la considerazione che la stessa denominazione di toga virile non debba trarre origine dal suo indicare l’ingresso dei ragazzi nel mondo degli adulti (da lat. virum ’uomo fatto’) ma sempre dal fatto più concreto e diretto che essi entrano nella pubertà: cfr. ingl. wire ‘filo metallico’, specializzazione di un significato più generico come mostra il termine plumb wire ‘filo a piombo’ e il composto wire-haired ‘a pelo ruvido’ detto del fox terrier, in cui si ha comunque già una specializzazione del significato, forse dovuta all’influsso di quello di wire ‘filo metallico’. L’it. birillo deve avere un qualche rapporto con la radice in questione, come certamente le varianti abr. pire ’piolo, grosso bastone’, pir-òle[11] ‘cavicchietto per tendere le corde del violino’, it.pir-one ‘cavicchio, perno’, friul. pìre [12]‘farro piccolo’, sloveno pira, pir [13]‘farro piccolo’, gr. pyr-ós ‘grano, fru-mento’[14]. Del resto anche il signif. di lat. viru(m) ‘uomo forte, uomo fatto, adulto’ poco risponderebbe alla realtà di adolescenti, anche se non più imberbi, tra i 14 e i 18 anni che prendevano la toga virile, benchè in effetti con questa cerimonia entrassero nella categoria degli uomini.
Libera, l’altro nome di Proserpina o Kore, per la quale ultima rimando al post Le Procaristerie dell’ottobre 2009, era dunque uno dei diversi nomi che dovevano indicare la divinità femminile del rigoglio della Natura a primavera come ad esempio la stessa Cerere. L’etimo di Proserpina mi sembra scontato se il lat. pro-serp-ere indica anche lo ‘spuntare, germogliare’ dei vegetali, oltre allo ‘strisciare avanzando’. Quello di Cer-ere, allotropo di Kore, di cui parlo sempre nel post citato, è da ricondurre a forme simili al gr. kór-os, con varianti, che significa oltre a ‘fanciullo’ anche ‘rampollo, stelo, giunco’ secondo la ratio di cui abbiamo parlato. Nei dialetti centro meridionali la carus-ella (cfr. lat. Ceres ‘Cerere’) è un tipo di grano con scarse ariste, il che ci potrebbe fuorviare nella individuazione del suo giusto etimo, a causa dell’incrocio col dialettale carus-are ‘rapare a zero, tosare (le pecore)’. Ma l’it. carosella ‘finocchiella’ ci riporta sulla retta strada e ci dice che questi significati sono solo una specializzazione di quello più generico a monte che li comprende tutti, specializzazione che confonde le nostre menti, se non sono diventate immuni a simili inganni di prospettiva. Le voci dialettali centromeridionali come trasaccano carusë[15] ‘ragazzo con la testa rasata’ ma anche ‘cavalluccio, somarello matto’ , abr. carósë [16] ‘tosatura di capelli’ ma anche ‘puledra’, siciliano carusu ‘ragazzo, fanciullo’, voci che in diversi dialetti ritengono, appunto, anche il sign. di ‘puledro’, non possono essere associate al diffusisssimo verbo carus-are di cui ho parlato sopra. Si tratta della solita sovrapposizione di termini che non può assolutamente guastare il meraviglioso armonico rapporto tra il concetto di ‘filo, grano’ e quelli di ‘puledro, cucciolo di animale’ e di ‘cucciolo umano, figlio, ragazzo’ espressi tutti dalla stessa radice car-us-. Anche i termini come it. cors-iere (cavallo da corsa e da combattimento), ingl. horse ‘cavallo’, a. frisone hars ’cavallo’, ted. Ross ‘destriero’ e persino l’aggettivo dell’espressione cane corso[17] appartengono a questa famiglia, diversamente da come pensano tutti i linguisti che ne additano soddisfatti come etimo, per il sign. di ‘cavallo’, la radice del verbo lat. curr-ere ‘correre’. Insopportabile! perché non si accorgono di essere caduti nella trappola della individuazione di un etimo in base alla sua indicazione di funzioni del referente più o meno marginali.
I Liberalia, in base a quanto siamo venuti osservando, si rivelano quindi come una delle tante feste della Primavera che con nomi diversi erano celebrate presso tutti i popoli antichi, presso ogni grande o piccola comunità agreste; feste che dovevano rinsaldare il vincolo tra tutti i viventi, vegetali, animali e uomini, anch’essi parte del gran concerto della Natura, e che qui, nei Liberalia, con le cerimonie centrali che sottolineavano con gioia la realtà dei ragazzi divenuti puberi[18], si sentivano partecipi della stessa sorte dei teneri fili del grano in erba che assicurava loro la sopravvivenza per il presente, attraverso il successivo raccolto delle messi, mentre la persistenza del loro nome nel futuro veniva garantita dai propri rampolli divenuti, con la raggiunta pubertà, uomini a tutti gli effetti.
Beate le antiche età, soprattutto quelle più remote! in cui gli uomini avvertivano profondamente (perché era la lingua stessa che usavano e che non aveva ancora completamente coperto i significati originari delle parole a dichiararlo) di essere integrati in una vasta rete di rapporti che teneva insieme divinità, uomini, animali, vegetazione fino all’ultimo filo d’erba, e anche territorio, conosciuto a menadito e sotto la protezione delle divinità locali, piccole e grandi, che popolavano i monti, le valli e le fonti, rete che permetteva loro di superare le difficoltà della vita, che pure erano tante, con uno stato d’animo forse più pacato e virilmente fiducioso, perché le loro radici erano saldamente immerse nel grembo della Terra Madre che respirava all’unisono con i loro cuori. Ebbene la Lingua, come abbiamo visto, ha registrato e trasmesso stupendamente fino a noi questa ancestrale e armoniosa visione animistica della realtà. Di animismo in generale avevamo già letto e sentito parlare da parte degli studiosi, ma davvero straordinario e sorprendente è riscontrarlo di mito in mito, di parola in parola, magari in quelle dei nostri dialetti.
La mia fanciullezza e adolescenza si è svolta tutta entro un quadro del genere: contadini al lavoro nei campi, molti animali nelle stalle o sparsi nella campagna e nei pascoli, stradine e sentieri dove, mentre seguivo la mia asina Carmela che procedeva lenta, ritornando al paese che si stagliava severo in lontananza come in una tela di un macchiaiolo dell’Ottocento, sotto il peso di qualche sacco di patate o quello di un certo numero di manóppjë di grano o di tórzë[19] di frasche, improvvisamente poteva spuntare strisciando, facendomi lì per lì rabbrividire, un lungo pasturavàcchë dalla pelle striata, o frullare via dalle siepi una frattaròla o una cràstëla, tra lo stormire ora piano e appena avvertibile, ora più franco e sonoro, delle foglie dei pioppi, degli olmi, dei cerri sulle cui cime andava spesso a posarsi il volo bianco e nero di una ciciaccòva[20]. Le antiche divinità agresti erano, è vero, scomparse da gran tempo, non c’era più nemmeno un’ombra di possibilità di scorgere, oltre il recinto d’un orto, la rude immagine lignea di Priàpo lascivo o quella più gentile di Pomona dalle forme abbondanti: esse avevano lasciato il posto a qualche malandato e improbabile spaventapasseri, a streghe e stregoni, ad esseri non meglio identificati che, soprattutto di notte e in punti determinati, potevano far sentire la loro presenza, più spesso paurosa e malefica che benefica.
Ora, con la modernità che ha portato con sé una rivoluzione epocale a cui può stare a fronte solo l’invenzione dell’agricoltura (guarda caso!) avvenuta dieci-quindicimila anni fa nella Mezzaluna Fertile del vicino Oriente che però non scombussolò totalmente il rapporto uomo-natura rispetto alla precedente società di cacciatori e raccoglitori, circolano vetture per le strade ma quasi più nessuno circola nelle campagne abbandonate e nemmeno in paese, divenuto sempre più vuoto di uomini ed animali, soprattutto nei lunghi mesi invernali. L’ultimo straziante raglio dell’ultimo asino, l’ho udito un paio d’anni fa. Ha vinto la modernità rombante, incontenibile, chiassosa, metropolitana che sa di fabbriche, macchine, velocità, telefonini, tutte cose che possono essere buone, per carità, e spesso lo sono, ma che forse in cambio chiedono troppo, il respiro e l’anima dell’uomo, una volta laceratasi quella rete che lo teneva in stretta simbiosi con la Natura dal ritmo lento, ampio, serenatore e solenne.
Con il cuore gonfio di questi umori un po’ nostalgici, ma soprattutto dolenti, insofferenti e ribelli, scrissi già molti anni or sono questa poesia dedicata allo sfortunato poeta russo Esenin e a tutti quelli cui come a lui “morire non è nuovo sotto il sole, ma più nuovo non è nemmeno vivere”.
A Sergio Esenin
O Sergio Esenin, qualcuno si sfama
col tuo pane impastato di rancore
dentro un bianco cofano di cristallo;
e spremerà la loro asprigna polpa
per un decotto soltanto a lui noto
che caccerà dall’anima il catarro
accumulato da un selvaggio vento
che lacera la vita come panno.
O Sergio Esenin, tu non fosti l’ultimo
poeta contadino! Se mi versi
nel bicchiere un po’ di vino, che scaldi
il petto come sole meridiano,
sentirai un rozzo canto campagnol
doloroso di menta e di reseda
celebrare la tua celeste Russia
di betulle, di aceri e di capanne
che so d’amare quanto la mia terra.
Insieme noi a raccolta chiameremo
le poche mucche al pascolo nei prati
che subito al richiamo accorreranno
e nelle nostre mani carezzanti
la bava, tra i muggiti, coleranno
del dolore: chiederanno giustizia
per l’aratro schernito dal trattore,
per i piccoli sottratti alle poppe
dalla mano impietosa del mercante.
Insieme noi a raccolta chiameremo
ancora i radi branchi di cavalli
nascosti nelle valli in mezzo ai monti
che lugubre un rimbombo ululeranno
di tamburi ossessionanti, battuti
dai batacchi di piedi tempestanti:
dalle loro acquose pupille nere
berremo tutta la disperazione
di quella razza fiera in estinzione.
Insieme noi a raccolta chiameremo
ancora i pochi greggi latitanti
e dalle loro bocche ascolteremo
la triste nenia che li tiene in vita;
usciranno anche i porci dalle stalle
scardinando la porta che li chiude;
i somari, annusata la rivolta,
coi denti spezzeranno la cavezza
e il giorno tremerà del loro grido!
Insieme tutti quanti marceremo
lungo le larghe strade nazionali,
saremo cento, mille e più di mille
nessuno ormai fermare ci potrà;
gli artigli adunchi di feroci galli
a chi s’oppone caveranno gli occhi,
tra la maciulla delle nostre zampe
stritoleremo la città di ferro
nemica della nostra umanità.
O Sergio Esenin, più non moriremo!
Sono certo che tra il discreto numero di persone che leggono questi miei post, c’è qualche linguista di professione. Mi farebbe molto piacere sentirne il parere, di qualunque tenore esso fosse, specie su quest’ultimo post, ma non credo che ciò succederà mai. In Italia purtroppo per essere non dico riconosciuto e apprezzato (se del caso), ma semplicemente per essere ascoltato (e credo di averne acquisito almeno il diritto, con la mia dedizione senza limiti alle parole, che dura da diversi decenni e che, a mio parere, ha ottenuto risultati non trascurabili) bisogna che qualcuno ti appiccichi una coccarda sul cappello e ti includa in questa o quella consorteria accademica di cui dovrai adottare i vezzi, i pregiudizi, i tecnicismi e persino un certo modo di scrivere, altrimenti nessuno ti degnerà di uno sguardo. E pensare che ringrazierei molto anche chi avesse un’idea opposta alla mia e stroncasse, con argomenti credibili, i miei articoli. Too bad!!!
[1] L’80% lo condividiamo con un verme di 1 mm, il Caenorhabditis elegans, e il 50% con la comune banana. Il che significa che la Vita è paragonabile ad una sorta di piramide il cui apice è rappresentato dall’uomo. La metafora, però, è in certo senso fuorviante perché induce a pensare che la Vita sia stata un processo lineare che ha condotto direttamente all’uomo, quando invece si è avuta una evoluzione estremamente incerta, casuale, imprevedibile. Naturalmente non voglio assolutamente liquidare, con due parole, la questione della spiritualità dell’uomo che richiede ben altre riflessioni e considerazioni che potrebbero, almeno in linea teorica, anche aprire la porta a dimensioni diverse da quelle del cosiddetto riduzionismo biologico.
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[2] Cfr. F. Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo civico di Cerchio-Aq, anno VII 2004, Quaderno 57, sub voce.
[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, s.v.
[4] Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio 2004, s.v. Alla base di questi termini deve porsi qualche variante con labiale sonora della voce cerchiese lippë ‘filo, pelo’, trasaccano lippë ‘filo d’erba o qualsiasi coltura dallo stelo esile’, trasaccano leppa ‘filo minuto d’erba o di paglia; stecchi che restano attaccati alla fibra della canapa, dopo la gramolatura’ oltre che ‘striscia di carta o di stoffa; stringa’; fr. livrée ‘pelame, piumaggio, lanugine (di certi animali)’ oltre che ‘livrea’: quest’ultimo significato deve essere specializzazione di uno precedente di ‘pellicia, mantello, toga, abito’, con movimento inverso rispetto a quello sotteso al suo etimo corrente che parte dal supposto significato originario di ‘(divisa) consegnata (alla servitù)’, dal p.pass. del verbo livrer ‘consegnare’. Le parole sono sempre in cerca di specializzazioni e, appena possono, cambiano significato. Segue ancora tras. leppë ‘bordo, piega degli abiti, orlo’, in altri termini una specializzazione del prec. leppa, varianti di tras. lappë ‘piega che forma il bordo degli abiti, orlo’. E’ inevitabile il confronto con l’ingl. lap ‘falda, lembo ripieghevole’, ingl. lip ‘labbro, orlo, bordo’, ted. Lappen ‘pannicello, cencio, straccio’. Queste parole dialettali mi sembrano di stampo germanico con il gioco dell’apofonia tipico di quelle lingue. Ma anche qui, più che di apofonia, io parlerei di varianti originarie esistenti prima indipendentemente, e poi avvicinatesi a dar vita a quei rapporti che solo in apparenza sembrano generati dall’apofonia, cioè dalla presunta trasformazione del suono della vocale radicale. Naturalmente non si può credere che le voci trasaccane siano state portate da qualche ondata di invasori germanici nel medioevo. Esse vivevano sul nostro suolo marsicano da tempi remotissimi come dimostrano i significati interdipendenti di ‘filo d’erba o paglia, stringa, striscia di carta o di stoffa’ di tras. leppa, dei quali quello di ‘striscia’ si è già avviato a diventare ‘falda, bordo, piega’. Anche l’it. lippa, gioco i cui strumenti essenziali sono due bastoni, uno più piccolo e appuntito alle due estremità, non può che essere un derivato di questa radice col valore generico di ‘stelo’ e quindi di ‘bastone, mazza’.
[5] Ricorrono, sempre in campidanese, le forme lappa de arrangiolu (lat. araneolum ‘ragnetto’) ‘ragnatela’ o semplicemente lappa ‘ragnatela’. Mi pare incontestabile che queste radici sono le stesse di quelle abruzzesi elencate nella nota precedente nel loro valore essenziale di ‘stelo, filo’. Per campid. lepp-erangiòlu si può legittimamente supporre una forma lepper-angiòlu, proveniente per semplificazione (aplologia) da un precedente *lepper-arangiòlu
[6] Adesso, col senno di poi, constatiamo che i Sardi, con l’arrivo dei Romani, mai dismisero l’uso di questi antichissimi nomi di cereali (laòre, liòri) con l’intenzione di sostituirlo con un termine latino, labore(m) ‘lavoro’, che con essi aveva solo un piuttosto vago rapporto.
[7] Plinio, Nat. Hist., XVIII, 11.
[8] Cfr. M.Cortelazzo-C.Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998. Le varianti ivi riportate laurìnnia, raudìnnia, raudìndia, piuttosto che confermare l’ipotesi da nessuno messa in discussione che l’etimo di queste voci sarebbe ‘grano d’India’, mi spingono a pensare che doveva esistere, precedentemnte, una forma *laurinja, normale svolgimento di laurino, forma aggettivale riferita non ad un tipo di grano ma ad un arbusto detto erba laurina. Ora è molto facile che un possibile tipo lessicale *laurinja, laurinnja riferito al ‘grano’, sotto la spinta dell’esigenza di dare un nome a nuove granaglie provenienti dall’estero, desse vita, per etimologia popolare, ad una forma come la citata laur-india, specializzazione per ‘granturco’. Lo stesso fenomeno potrebbe essersi verificato per il termine dindo ‘tacchino’ e simili, animale importato dal Nord-America. Il fatto è che il termine sembra derivare dall’espressione gallo d’India, già usata però per indicare la ‘gallina faraona’, nota ab antiquo. E’ presumibile, quindi, che si siano avute, a partire dalla voce gallina, forme come *gallinja, *gallinnja, *gallindia propedeutiche all’interpretazione gallo d’India, che ha dato vita alle abbreviazioni dialettali dindo, dindio, ecc. Nel dialetto di Gallicchio-Pz (cfr. relativo sito web) la voce fichëlìnë ‘fico d’India’, che formalmente è solo un doppio diminutivo di fico (cfr. dimin. lat. ficulam ‘piccolo fico’), si è trasformata in un aperto ‘fico d’India’, appunto: la trasformazione di significato non è stata qui sufficiente a modificare il diminutivo di partenza fichëlinë in fichëlìnjë > fichëlindië per adattarlo al nuovo significato.
[9] Ovidio stesso (Fasti, III, 771 ss.) si chiede perché la toga libera si riceveva il 17 marzo, giorno sacro a Libero. Le sue varie risposte non potevano non ruotare intorno ai valori saputi di lat. liberu(m) ‘libero’. Ma anche gli studiosi moderni, dopo alcuni secoli di studi linguistici, a quelle domande non sanno dare una risposta fondamentalmente diversa da quelle di Ovidio, anzi taluni sono rassegnati alla impossibilità di trovare una spiegazione valida al problema, come D. Sabbatucci il quale sostiene: «Naturalmente sono domande destinate a restare senza risposta, o si risponde ad esse con vaghe congetture» (cfr. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, p. 104). Tutto ciò significa, a mio avviso, che la linguistica non ha sostanzialmente ancora fornito all’uomo moderno gli strumenti adatti a penetrare almeno un po’ più a fondo nella verità degli antichi usi, miti e divinità. Il problema dei problemi è rappresentato, come ho detto più volte, dalla estrema elasticità del significato di una parola, caratteristica che se da un lato permette di collegare tra loro svariate categorie di termini, dall’altro finisce con lo scombussolare gli schemi e i metodi tradizionali degli studiosi, che per questo, credo, mussant. Prima di scoprire le due parole del lessico cerchiese legate al lat. libero(s) ‘figli’ io già supponevo che l’etimo della parola latina dovesse essere legato al concetto di ‘rampollo, pollone, stelo’ e non a quello di ‘libertà’ ma non avevo ancora uno straccio di radice che me lo confermasse. Ciò significa che il mio metodo, sia detto senza alcuna iattanza, deve essere quello giusto. Un’altra verità, che mi si rivela ogni giorno più solida, è che le parole, liberate da tutte le incrostazioni accumulatesi nei secoli e millenni, puntano dritte alla natura fondamentale del referente, e che quindi è senz’altro fuorviante lasciarsi accarezzare da altri concetti che hanno rapporti casuali e superficiali con essa, anche quando il loro significato sembra del tutto appropriato al referente, pur senza coglierne l’essenza.
[10] Negli stessi paesi di Aielli, Cerchio e altrove ricorre la forma firë per ‘filo’ che, ribadisco, mi sembra un errore considerare derivata da lat. filu(m) ‘filo’. Essa mi sembra più simile ad ingl. fur ‘peluria, pelliccia’, lat. fer-ula(m) ‘bacchetta, ramoscello, germoglio di vite’, ingl. fir ‘abete’, lat. piru(m)’pero’, lat. far ‘farro, spelta, grano’ di cui si parlerà più sotto nell’articolo, francoprovenzale far-bela, fer-bela ‘frangia, falpalà’, ingl. fur-bellow ‘falpalà’, lat. far-faru(m), far-feru(m) ‘farfaro’ (con radice raddoppiata), un tipo d’erba, fr. foarre, fouarre ‘paglia di fru-mento’. Il fru- di lat. fru-mentu(m) trova riscontro, a mio parere, nell’umbro fri delle Tavole Iguvine inteso come ‘le messi’. Non credo che esso sia un accorciativo di lat. fruges ‘prodotti, cereali’: semmai è quest’ultimo ampliamento dell’altro. E non credo che c’entri, almeno direttamente, il verbo lat. frui ‘godere, fruire’, come si sostiene. Il suffisso –mentu(m), comune a tante parole, qui, in funzione tautologica, credo corrisponda per il significato al lat. mentu(m) ‘mento’, lat. ment-ula(m)’pene’, lat. menta(m) ‘menta’ col valore di fondo di ‘escrescenza, protuberanza’.
[11] Cfr. D. Bielli, cit.,s.v.
[12] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, cit., s.v.
[13] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, cit., s. v. pìre. La Marcato riporta anche le forme friulane pire-fàre, pire-spèlte per la stessa pianta in cui lei suppone che le voci fare e spelte, che significano ‘farro’, servano a rinverdire il signif. di pire divenuto oscuro. Ma a me pare che si tratti semplicemente di due splendidi esempi di composti tautologici. I linguisti li hanno poco studiati. Anche il diminutivo latino fur-unculu(m) ‘getto della vite; foruncolo’ è ora che la smetta di nascondersi sotto la veste del ladruncolo (lat. fur-em ‘ladro’) che ruberebbe la linfa alle piante, e si rassegni a far parte di queste radici per ‘filo, pollone, germoglio, tralcio’ che facilmente diventano ‘escrescenze cutanee’ più o meno purulente nelle varianti dialettali marsicane pura, purélla, përélla, purijjë. Il lat. ferv-unculu(m), forma parallela di fur-unculu(m), è più vicina all’idea base dei due termini, con il suo richiamo al verbo ferv-ere ‘fervere, bollire, ardere’.
[14] Fanno parte della serie anche le voci, registrate dal Bielli, come vurë che, oltre a ‘borea’, significa ‘vigore, forza della terra’ (con allusione alla forza della vegetazione), vurrë ‘vivace’, termine che presuppone una variante *virrë ‘vivace’ se questo stesso è attestato nel Bielli col significato di ‘bizze, capricci dei bambini’. Sono certo che frugando tra i lessici dei dialetti si potrebbe incontrare un *biro, *viro col significato di ‘bambino, ragazzo’, termine che entrerebbe in contrasto, per la nostra mentalità, col lat. viru(m) ‘uomo fatto, eroe’, benchè la radice sia, a mio avviso, la stessa: si tratta sempre della stessa ‘forza’ della natura che, di parlata in parlata, si concretizza nell’uno o nell’altro modo. L’italiano borra proviene da un tardo lat. bura(m), burra(m) ‘stoppa, imbottitura’, variante dell’altra radice con labiale sorda. Il Pianigiani, nel suo dizionario presente in rete, attesta che il termine borra era usato anche col valore di ‘forza fisica e psicologica’, confermando quindi il significato di ‘vivace’ delle voci abruzzesi sopra citate. Solo che lui trae questo significato da un supposto uso metaforico del termine. La realtà è che la radice aveva in sé ab origine il significato di ‘forza’, in questo caso della Natura, che faceva spuntare erbe, piante e tutto il resto.
[15] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, sub voce.
[16] Cfr. D. Bielli, cit., s.v.
[17] La radice prima di questi termini per ‘cavallo’ è rappresentata, a mio parere, dalla voce khar ‘asino’ dei dialetti iranici del Pamir, e sono convinto che le espressioni arri qua, arri là, rivolte nel mio paese ai soli somari come incitamento a procedere in una direzione o nell’altra, nasconda sotto la voce arri un precedente *harri proveniente dal suddetto khar ‘asino’.
[18] La festa consisteva anche in una processione alla cui testa svettava una pertica con sulla sommità un vistoso fallo, simbolo di fertilità e fecondità presso molte delle antiche civiltà mediterranee. Ma è da aspettarsi che i concetti stessi di “pertica” e “fallo” fossero in stretto rapporto con quello di “germoglio, pelo, filo, stelo, cereale, figlio” o di “turgore” della primavera, che è la stessa cosa. Finita la processione, una virtuosa e rispettata matrona poneva una corona sul fallo. A me pare molto credibile che le odierne Madonne della Libera diffuse un po’ in tutta l’Italia centromeridionale continuino la tradizione antichissima legata alla dea pagana Libera. Naturalmente tutti gli aspetti sessuali e sensuali di quella festa non potevano che scomparire nella nuova temperie spirituale, a volte fortemente sessuofobica, del Cristianesimo. Ma l’immagine della Madonna della Libera, come appare in un antico quadro conservato nel santuario di Rodi Garganico, mi sembra che abbia mantenuto qualche tratto inconfondibile che la lega al passato: essa non solo presenta la Madonna col bambino Gesù, come la maggior parte delle Madonne della Libera (sottolineando così la sua funzione di procreatrice), ma raffigura il bambino mentre gioca con una colomba trattenuta da un filo. Ritorna il concetto di “filo” che è alla base delle latine Liberalia. Anche le due croci impresse una sul collo e l’altra sul palmo della mano destra dovrebbero rimandare al gr. króke ‘filo, trama’. La crocetta è un’ottima erba da foraggio. Si incontra anche l’abruzzese cròcchiele’parte di un gomitolo, che si stacca dall’intero in forma di matassina; gretola della rocca’ (vocab. del Bielli) derivante da un precedente *croc-ula. La colomba peraltro era uccello sacro a Venere, dea dell’amore e della fecondità: naturalmente questo simbolo si incrocia qui con quello di origine biblica che rappresentava la pace, la serenità, la bontà, il bene. La stessa dea Libera, secondo quanto leggo in un sito internet, era considerata vergine e generò un bambino, che divenne suo paredro. Sta di fatto comunque che sotto il titolo di Madonna della Libera la Chiesa Cattolica venera la Madonna in quanto madre di Gesù.
[19] Le torzë sono i fasci di frasche legati da una ritortola, i manóppjë sono i covoni.
[20] In italiano la ciciaccòva corrisponde alla gazza; il pasturavacchë è il serpente cervone, la frattarola è il forasiepe, la crastëla corrisponde all’averla? Numerose sono le varianti abruzzesi di ciciaccòva quali cicciacòlla (Avezzano), cicciaccòra (Cerchio), ciacciacólë e il semplice colë (vocab. del Bielli).
PUBBLICATO DA PIETRO MACCALLINI ALLE 10:00
PIETRO MACCALLINI
AIELLI, L'AQUILA, ITALY
Anonimo 02 dicembre 2012
Caro Maccaliini, come ampiamente evidenziato da Suo inno al noto poeta russo qui incluso, Lei non ė solamente un bravissimo etimologo, ma anche un poeta di grande potenziale. Dopo aver seguito e gustato il contenuto del Suo blog, io Le consiglio di dedicarsi alla poesia, piuttosto che alla linguistica, alla quale pochissimi sono gli interessati oggigiorno.
Pietro Maccallini 04 dicembre 2012
Gentilissimo Signor Anonimo, innanzi tutto La ringrazio per il Suo apprezzamento della poesia dedicata ad Esenin e del mio lavoro di etimologo. Se Lei non ha rivelato la Sua identità, avrà i suoi buoni motivi anche se un po' però me ne dispiace. Quanto al consiglio di dedicarmi alla poesia non è detto che non lo seguirò, anche perchè penso di aver ormai esaurito il compito di corroborare l'idea che sin dall'inizio mi ero via via formato sulla Lingua: un solo concetto, quello genericissimo di "vita, forza, spinta' è all'origine del vasto oceano rappresentato dalle parole di tutte le lingue dell'uomo. Un'idea che, a mio avviso, è destinata a sconvolgere o raddrizzare gli attuali approcci a diverse discipline, da quella antropologica a quella delle neuroscienze cognitive. Questo mi ha spinto ad essere tenace come un mulo nei miei studi, nonostante la sotanziale indifferenza dei linguisti. Cordiali saluti
Pietro Maccallini
Angus Walters 08 dicembre 2012
Caro amico Pietro, anch'io, sotto l'anonimato, un paio di volte ho commentato brevemente il tuo blog. Ma ora mi accorgo che non sono l'unico a farlo; e vorrei sapere se il Signor Anonimo che scrive ora e' un linguista di professione, perche' io, non meno di te, sono curioso di sapere se questo Anonimo ha qualche critica da fare sull'impostazione generale della tua teoria della lingua. Io, come sai, non sono un "professionista" in linguistica; ma i miei studi universitari mi hanno inoltrato abbastanza bene negli oscuri meandri della linguistica moderna. In tal modo, si potrebbe condurre una discussione a tre.
Angus Walters
Pietro Maccallini 08 dicembre 2012
Caro Angus, io sarei molto grato all'Anonimo se volesse in qualche modo, anche via email, svelarmi la sua identità, ma sono convinto che egli abbia un valido, anche se effettivamente molto strano, motivo per non farlo.
Pietro Maccallini
Anonimo 11 dicembre 2012
Una "critica…sull'impostazione generale" , come indicata da Angus Walters, non ė il caso di farla. Piuttosto, io farei riferimento ad uno sbalzo paradigmatico linguistico-culturale da farsi nell'ambito della teoria della lingua per poter dialogare con la stesura linguistica del Maccallini. Ma io temo che la sua visione non oltrepassi i limiti cronologici dell'inimitabile autore, anche se scripta manent.
Monday, December 19, 2011
DITTATURA FISCALE O POLITICA NEGATIVA: Discussione sulla crisi economica europea nel blog di Giorgio Israel
"MERCOLEDÌ 30 NOVEMBRE 2011
Per favore, il premier ci risparmi almeno il tecno-trotzkismo
Si moltiplicano le voci che denunciano il vizio di fondo di una costruzione europea che ha messo il carro dell’economia davanti ai buoi della politica. Il che – ha osservato Angelo Panebianco – ha comportato una ferita della democrazia. Ma ora la crisi, invece di stimolare il risanamento di questa ferita – con la lunga e difficile opera di unire popoli, lingue e culture che non si conoscono e talora non si amano – rischia di provocare un ulteriore crollo della democrazia.
Sembra che il tandem franco-tedesco – incurante dell'opinione dei paria dell'Unione – punti a un'Europa a due cerchi, a una Schengen dell'euro: nel disco centrale i due paesi forti, Germania e Francia, fuori di esso chi non si adegua alle nuove regole imposte dal centro. Mentre il presidente francese Sarkozy preme drammaticamente sull’Italia, invitandola a sacrifici per entrare nel primo girone, forse temendo di restare solo con la Germania, si profila una sinistra prospettiva: un cambio della governance europea per vie che evitino la ratifica elettorale delle nazioni. Sarebbe gravissimo. L’Europa diverrebbe un protettorato gestito da due paranoie – il ricorrente delirio di potenza tedesco e l'incapacità francese di disfarsi del mito della "grandeur" – e da funzionari irresponsabili e prepotenti.
Si dice che il premier Monti voglia giocare il tutto per il tutto per agganciarsi alla locomotiva franco-tedesca, anche trasformando la manovra economica in una cura da cavallo. Si evoca la situazione del 1996, quando Prodi e Ciampi tentarono di convincere Aznar a un'adesione "morbida" all'euro e, di fronte al suo rifiuto, scelsero una manovra economica eroica. Forse fu una scelta giusta, ma non è detto: la questione è controversa. Ora il contesto complessivo è molto peggiore e occorrerebbe pensarci dieci volte prima di far scorrere lacrime e sangue, ridurre il paese allo stremo e trasformarlo in colonia, pur di agganciarsi a una locomotiva che oltretutto può andare a sbattere malamente.
Al riguardo fa riflettere un recente discorso di Monti in cui si diceva: «Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti.
I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario.
È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata».
Si tratta di affermazioni sconcertanti, consone più che a un tecnico moderato, a un esponente delle tradizioni politiche che pongono gli obbiettivi storici "supremi" al disopra della volontà e delle esigenze dei cittadini. I "passi avanti" dell'Europa si misurano con la crescita del benessere, della qualità della convivenza civile, della cultura, dell'istruzione; non con la quantità di sovranità nazionale ceduta. Invece, qui si dice addirittura che le crisi sono benvenute e salutari perché costringono i cittadini sofferenti a rinunciare all'appartenenza nazionale pur di salvarsi. Questo è un tipico ragionamento da rivoluzionario che vede le crisi come tappe di una rivoluzione permanente in vista di un obbiettivo supremo, nella fattispecie il potere centrale europeo come necessità storica trascendente. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di un trotzkismo tecnocratico, di ammazzare il paese con cure da cavallo sull'altare dell'ideale della cessione della sovranità nazionale da realizzare anche a costo di fabbricarlo con le sofferenze della gente. È meglio non lasciarsi abbacinare dal mito del Reich europeo millenario e pensare alla via giusta per ridare al paese speranza, vitalità e fiducia nel futuro, perché solo così riprenderà a crescere. Questo richiederà soprattutto riforme, il che è compito esclusivo della politica. Se questa si rivelerà latitante o impotente sarà un dramma, ma l'eurocrazia come versione attuale dello stato etico, per favore no.
(Il Foglio, 29 novembre 2011)
PUBBLICATO DA GIORGIO ISRAEL A 8:18 AM
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